- La “signora del pozzo n. 1”: un documento coroplastico da Montereggi.

 La “signora del pozzo n. 1”: un documento coroplastico da Montereggi.

La campagna d’indagine archeologica condotta nell’anno 2010 su poggio di Montereggi, a Limite sull’Arno, aveva lo scopo di allargare l’area di scavo nell’area sommitale della collina e di completare lo svuotamento stratigrafico del pozzo-cisterna n. 1, il più grande tra i molti (ben sette) sin qui riportati alla luce.[1] Rinvenuto nell’aprile del 1985, il pozzo era stato parzialmente scavato, ed aveva evidenziato nei materiali di colmatura la presenza di molteplici reperti medievali, già datati entro un ampio arco cronologico di riferimento, poi precisato – grazie agli sviluppi dell’archeologia medievale – alla metà circa del XII secolo dell’Era volgare. Sotto lo strato medievale, che testimonia la più tarda rioccupazione del colle, era emersa una stratigrafia riferibile all’uso del pozzo-cisterna in epoca tardo-ellenistica (II secolo a. C.), evidenziata dalla presenza di molteplici brocche da acqua  del tipo detto “a pasta chiara granulosa”. Si era però dovuto abbandonare l’indagine archeologica per il pericolo di crollo che, a causa del rimaneggiamento medievale, la struttura minacciava: oltre ad allargare il diametro del pozzo, infatti, in quel tempo lo si era armato con una ghiera di pietre di media dimensione, recuperate dai crolli degli edifici etruschi, che ora pesava in maniera abnorme sul vuoto prodotto dallo scavo.

                    Il Pozzo n. 1 visto dall’interno.    

Riprese le indagini nel 2004, si era ripulito il sito, ed infine armato il pozzo per rendere possibile il suo definitivo svuotamento, fondamentale per la datazione dell’edificio (E)1, al quale esso appartiene, e strutturalmente ben accostabile - nonostante i rifacimenti subiti - alla tipologia delle cosiddette “case di Marzabotto” (cioè a quelle della città etrusca di Kaiuna), databili al V secolo a. C. Con un certo disappunto, si era però giunti nel settembre del 2010 sul fondo del pozzo rinvenendo soltanto materiali di epoca ellenistica, inquadrabili nella seconda metà del III secolo a. C. (ceramica a vernice nera e frammenti di anfore greco-italiche). Si doveva perciò constatare che l’edificio “uno” era stato oggetto di rioccupazione: in quella fase il pozzo-cisterna era stato ripulito, un po’ allargato ed anche affondato.

Nessuno si immaginava, però, ciò che avremmo rinvenuto sul fondo. Qui, infatti, giaceva in posizione orizzontale, con la parte in rilievo rivolta verso l’alto, su un allettamento di ciotoli di provenienza allogena (da un laghetto, da una spiaggia fluviale?), una lastra fittile sulla quale era stata applicata una testa femminile in altorilievo.[2] Sopra il manufatto erano collocate due lastre di arenaria che lo avevano salvaguardato dall’urto delle pietre e dei laterizi successivamente precipitati all’interno della struttura, ed il contesto del ritrovamento indicava perciò una deposizione di carattere rituale, evidentemente finalizzata alla protezione del pozzo e del suo contenuto.


Le indagini successivamente condotte in Montereggi hanno segnalato una fase di rioccupazione del sito che si data proprio sul finire del III secolo a. C., la stessa, cioè, alla quale si riferisce la deposizione della lastra figurata. E’ questo un periodo cruciale per il Valdarno, ed in particolare per i territori posti sulla riva destra dell’Arno, che forse avevano subito i contraccolpi della discesa verso la pianura delle popolazioni celtiche già insediate, probabilmente dall’inizio del IV secolo a.C. sull’Appennino tosco-emiliano (a Kaiuna, a Monte Bibele, etc.). Sembra, dunque, che la presenza dei celti sia qui venuta meno poco tempo prima che le conquiste romane (Pisa fu strappata ai Liguri Apuani nel 200 a. C.), forse grazie ad una temporanea alleanza etrusco-romana. Montereggi appare un sito assai significativo per la documentazione di questi avvenimenti, visto che proprio alla seconda metà del III secolo a. C. si deve collocare anche la sepoltura rituale rinvenuta in un altro pozzo, il numero due dell’area 1000.[3]

La lastra del “pozzo 1” fu realizzata mediante l’applicazione delle parti in rilievo – la testa femminile e il fogliame d’acanto – su un pannello fittile piano, di forma pressoché quadrata (h.38x36 cm.); fatto salvo un maggior impiego in quest’ultimo, come normalmente avviene per i laterizi, di smagrante sabbioso, le due parti mostrano all’esame autoptico un impasto identico. La lastra, inoltre, non evidenzia tracce di coloritura, e da ciò - visto anche che denota  ritoccature realizzate allo stato di fresco – se ne deduce che non si tratta di un manufatto coroplastico riutilizzato. La testa fu ottenuta calcandola in matrice: dopo averne svuotato l’interno, al fine di scongiurare rotture in fornace, fu poi applicata alla lastra mediante barbottina. Una volta saldata al supporto, alla figura femminile si aggiunsero il velo, gli orecchini e la collana; in ultimo le parti vegetali, realizzate con la plasticazione manuale, furono rifinite con decisi colpi di stecca al fine di suggerire le sfrangiature dei margini foliari dell’acanto. Il testa così realizzata emerge così dal cespo vegetale, per piegarsi lievemente, grazie ad una minima inclinazione del volto, verso la sinistra di chi guarda.

L’iconografia della figura (di solito femminile) che emerge dalle foglie d’acanto si diffonde nella pittura dei vasi apuli della seconda metà del IV secolo a. C., ed in particolare in quelli funerari attribuiti al c.d. “pittore di Dario”, ma anche a quello detto “della patera”, che si dice attivo in Canosa. Il motivo, quindi, si diffonde in origine in ambito magno-greco, ma entra ben presto nel repertorio delle produzioni fittili e scultoree italiche, incontrando particolare successo propri nei centri dell’Etruria, ed in special modo in quelli, come Caere, particolarmente sensibili agli apporti culturali esterni. La trasmissione di questi stilemi nel repertorio figurativo etrusco-romano fu segnalata già negli anni ’50 del secolo scorso da Valnea Scrinari che, pubblicando un consimile documento coroplastico rinvenuto ad Aquileia, così concludeva: “Gli esempi migliori...ci sono offerti dai prodotti delle maestranze di Taranto e Lecce, insieme a quelli dati da Capua, Tuscania, Ferento, Caere e Roma stessa…lungo una scia continua che dalle colonie apule raggiunge la Campania, il Lazio, L’Etruria e sale lungo i bordi del Tirreno e dell’Adriatico, portata dagli Etruschi prima, da Roma poi”.[4] Il rinnovamento della tradizione decorativa, indotto dalla diffusione di questo modello, è poi ben esemplificato dal complesso 14129 del Museo Gregoriano Etrusco, ove i pannelli con teste maschili e femminili, sorgenti anch’essi da foglie d’acanto, si accompagnano a figure di più piccola dimensione, collocate anch’esse all’interno di tralci vegetali.[5] La datazione della lastra agli anni 230-240 a. C., a suo tempo proposta in base al contesto di ritrovamento della medesima, ha poi trovato conferma nella documentazione di scavo che fissa la cronologia della rioccupazione del sito di Montereggi – come poc’anzi si accennava - proprio a quel periodo, con una più probabile accentuazione verso il limite “basso”, cioè al 220-230 a.C. circa.

La  pertinenza della lastra di Montereggi ad un fregio destinato alla decorazione del trave orizzontale (si tratta cioè di una sima frontonale) di un tempio o di un edificio monumentale, risalta chiaramente dalla presenza delle cesure che interrompono gli sviluppi laterali dei caulicoli dell’acanto, destinati a congiungersi con quelli di altri pannelli, i quali erano dunque progettati per essere posti in continuo, sino a comporre un fregio figurato orizzontale. Il nostro reperto non evidenzia i fori destinati all’inserimento dei chiodi, con i quali di norma si affiggevano, nei “templi tuscanici”, le decorazioni coroplastiche, poiché, grazie ad una fessura praticata sul rovescio, in corrispondenza della parte in rilievo, esso poteva essere appeso: la testa femminile, grazie alla sua cavità, poteva infatti celare un “gancio” metallico di sospensione. Pur potendo dedurre – vista anche la particolarità della “deposizione” nel pozzo -  che siamo di fronte ad un’immagine alla quale si attribuiva la capacità di proteggere le acque, l’identificazione della figura resta problematica, anche perché si può notare come il busto, non appena uscito dalla matrice, sia stato ritoccato al disopra della fronte, probabilmente per cancellare gli attribuiti simbolici originari. Ogni tentativo di dare un nome a questa rappresentazione, accostandola a qualche divinità italica delle acque (in particolare alla misteriosa Mephitis), o ad una Lasa del pantheon etrusco, appare perciò velleitaria: accontentiamo per adesso di chiamerla semplicemente  “la signora del pozzo n. 1”.

 

Fausto Berti

 


[1] Fausto Berti, Capraia e Limite (Fi). Abitato etrusco di Montereggi: campagna di scavo 2010 in Ministero dei Beni e della Attività Culturali e del Turismo, Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, <<Notiziario Toscana 6, 2010>>, All’insegna del Giglio, Firenze 2011, pp. 243-45.

[2] La lastra è stata pubblicata con maggiori dettagli tecnici in Fausto Berti, Un documento coroplastico da Montereggi in Ministero dei Beni e della Attività Culturali e del Turismo, Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, Francesco Nicosia. L’archeologo e il soprintendente. Scritti in memoria <<Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, supplemento 1 al n. 8/2012>> All’insegna del Giglio, Firenze, pp. 227-31. Il reperto è esposto al pubblico nel Museo Archeologico di Montelupo.

[3] Presentato in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica per la Toscana (Bedini-Chilleri) in occasione di Turismà ed. 2018 nel corso dell’incontro su “Sepolture etrusche anomale”, questo ritrovamento sarà pubblicato assieme al contesto di scavo nel volume Fausto Berti, Gruppo Archeologico di Montelupo, Montereggi: scavi 2004-2018, attualmente in fase di preparazione.

[4] Valnea Scrinari, Le terrecotte architettoniche del Museo Archeologico di Aquileia in <<Aquileia Nostra>>,  aa. XXIV e XXV (1953-54) pp. 27-54, pp.33-34

[5] Fernando Gilotta, Le lastre del Mus. Gregoriano 14129 nel quadro della coroplastica etrusco-laziale in <<Bollettino d’Arte>> 119, gennaio-marzo 2002 p, 1-11.

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